Le Operette morali si sono sempre sottratte a ogni definizione di genere, assumendo un ruolo marginale rispetto ai Canti e allo Zibaldone e causando nei lettori frequenti fraintendimenti: una prosa classicheggiante, ragionativa e impegnata ideologicamente dava voce a universi narrativi fantastici, spazialmente e temporalmente lontani da qualsiasi realtà. Questo libro si propone di ricostruire, attraverso tali componenti, contrastanti ma non certo inconciliabili, le valenze letterarie e filosofiche delle Operette, restituendo la complessità di un'opera articolata e per alcuni aspetti eterogenea, costantemente in bilico tra verità e finzione, tra serio e comico, tra discorso letterario e discorso filosofico. L'indagine retorica, e in particolare la considerazione dell'atto enunciativo, organizza i principi interpretativi che guidano la lettura, e l'analisi delle strategie discorsive evidenzia in primo luogo il percorso gnoseologico e speculativo del libro leopardiano. È nelle Operette che il pessimismo giunge a esiti estremi: una morale atea e una visione materialista danno forma alle immagini che riflettono la grande scoperta copernicana, proiettandola dalla dimensione universale al microcosmo dell'essere umano. E tuttavia, in una prospettiva così funesta e ancorata all'esercizio di una razionalità critica e corrosiva, la scrittura sembra ancora poter aprire la possibilità argomentativa del dialogo, poiché l'esperienza estetica fa appello a valori che gli uomini, in quanto tali, condividono. Inadeguate per risarcire i danni della vita vera, la letteratura, la filosofia, l'arte devono comunque guidare il percorso della ragione.